Search

Fa’ debito. Una “nuova” già vecchia strategia USA.

Fa’ debito. Una “nuova” già vecchia strategia USA.

Alla fine di aprile, il consigliere per la sicurezza nazionale USA Jake Sullivan ha tenuto un discorso sul nuovo Washington Consensus promosso dall’amministrazione Biden. Sullivan ha parlato alla Brookings institution, un centro di ricerca oggi guidato da un generale a quattro stelle, un altro segnale della crescente influenza dei militari sulla politica USA.

Il termine è stato usato per la prima volta nel 1989 dall’economista inglese John Williamson. Il Washington Consensus originale era un insieme di dieci prescrizioni di politica economica considerate come il pacchetto di riforme “standard” promosso per i Paesi in via di sviluppo in crisi da istituzioni con sede a Washington, come il FMI, la Banca Mondiale e il Tesoro degli Stati Uniti, ispirate dai precetti della supply-side economics, l’economia dell’offerta. Le prescrizioni comprendevano politiche di promozione del libero mercato, come la “liberalizzazione” del commercio e della finanza e la privatizzazione dei beni statali. Comportavano anche politiche fiscali e monetarie volte a ridurre al minimo i deficit fiscali e la spesa pubblica. Si trattava del modello politico neoclassico applicato al mondo e imposto ai Paesi poveri dall’imperialismo statunitense e dalle istituzioni ad esso alleate. La chiave era il “libero commercio” senza dazi e altre barriere, il libero flusso di capitali e una regolamentazione minima – un modello che andava specificamente a vantaggio della posizione egemonica degli Stati Uniti.

La prima parte del discorso di Sullivan è stata tutta dedicata a mettere in luce le pecche del vecchio Consensus.

La prima di queste pecche Sullivan l’ha individuata nello svuotamento della base industriale statunitense. La visione dell’investimento pubblico era svanita ed aveva lasciato il posto a un insieme di idee che sostenevano la riduzione delle tasse e la deregolamentazione, la privatizzazione a scapito dell’azione pubblica e la liberalizzazione del commercio come fine a se stesso. Il presupposto era che i mercati allocano sempre il capitale in modo produttivo ed efficiente, indipendentemente da tutti gli altri fattori. In nome di un’efficienza di mercato troppo semplice, intere catene di fornitura di beni strategici – insieme alle industrie e ai posti di lavoro che li producono – si sono trasferite all’estero. E la promessa che una profonda liberalizzazione del commercio avrebbe aiutato l’America a esportare beni, non posti di lavoro e capacità, ha detto Sullivan, non è stata mantenuta. Varie riforme si sono combinate per privilegiare alcuni settori dell’economia, come la finanza, mentre altri settori essenziali, come i semiconduttori e le infrastrutture, si sono atrofizzati.

Il secondo elemento di crisi estato individuato nel mancato verificarsi della premessa secondo cui l’integrazione economica avrebbe reso i governi più responsabili e aperti, e che l’ordine globale sarebbe stato più pacifico e cooperativo, mentre portare i Paesi nell’ordine basato sulle regole li avrebbe incentivati ad aderire a tali regole. In realtà una grande economia non di mercato era stata integrata nell’ordine economico internazionale in un modo che poneva notevoli sfide: la Repubblica Popolare Cinese ha continuato a sovvenzionare in modo massiccio sia i settori industriali tradizionali, come l’acciaio, sia le industrie chiave del futuro, come l’energia pulita, le infrastrutture digitali e le biotecnologie avanzate. Gli USA, secondo il consigliere per la sicurezza nazionale, non hanno perso solo il settore manifatturiero, ma hanno eroso la propria competitività in tecnologie critiche che avrebbero definito il futuro.
L’integrazione economica non ha impedito alla Cina di espandere le sue ambizioni militari nella regione, né alla Russia di invadere i suoi vicini. Nessuno dei due Paesi è diventato più responsabile o collaborativo. Negli anni della liberalizzazione si erano accumulate dipendenze economiche verso questi stati sempre più pericolose.

L’esponente dell’amministrazione USA ha poi individuato nell’accelerazione della crisi climatica e nella conseguente necessità di una transizione energetica giusta ed efficiente il terzo elemento che ha messo in luce il fallimento del vecchio approccio. Gli USA erano drammaticamente al di sotto delle nostre ambizioni climatiche, senza un percorso chiaro verso abbondanti forniture di energia pulita stabile e conveniente. Troppe persone credevano che dovessimo scegliere tra la crescita economica e il raggiungimento degli obiettivi climatici. Secondo l’amministrazione Biden, la costruzione di un’economia a energia pulita del XXI secolo è una delle opportunità di crescita più significative. Per sfruttare questa opportunità gli USA hanno bisogno di una strategia di investimento deliberata e concreta per promuovere l’innovazione, ridurre i costi e creare buoni posti di lavoro.

Infine Jake Sullivan si è occupato anche di quello che per noi rappresenta il più clamoroso fallimento del liberismo e della globalizzazione: la diffusione della miseria e l’aumento delle disuguaglianze. La crescita indotta dal commercio non è stata una crescita inclusiva, i guadagni del commercio non sono stati condivisi all’interno dei singoli stati. Questi guadagni non hanno raggiunto i lavoratori, mentre i ricchi hanno fatto meglio che mai. Le comunità manifatturiere statunitensi sono state svuotate e le industrie all’avanguardia si sono trasferite altrove. La chiave di tutto è rappresentata da decenni di politiche economiche “trickle-down”, come tagli fiscali regressivi, tagli profondi agli investimenti pubblici, concentrazioni aziendali incontrollate e misure repressive per minare il movimento operaio e le sue componenti più combattive.

Il quadro che fa Jake Sullivan delle conseguenze delle politiche ispirate dall’economia dell’offerta e della globalizzazione è devastante e testimonia che l’aggravamento delle contraddizioni di classe si è accompagnato all’aumento delle contraddizioni del sistema. Ora si tratta di vedere se le soluzioni proposte sono adeguate, non solo a garantire la continuità del sistema, ma soprattutto, e cosa più importante per noi, a permettere un miglioramento delle condizioni di vita delle classi sfruttate, negli Stati Uniti e in tutto il mondo.

Il primo passo suggerito nel discorso per superare le contraddizioni sta nel gettare le basi di moderna strategia industriale americana. Questa moderna strategia industriale dovrebbe identificare settori specifici fondamentali per la crescita economica, strategici per la sicurezza nazionale e in cui l’industria privata da sola non è in grado di fare gli investimenti necessari per garantire le nostre ambizioni nazionali. In questi settori il governo federale effettua investimenti pubblici mirati che liberano la forza e l’ingegno dei mercati privati, del capitalismo e della concorrenza per gettare le basi di una crescita a lungo termine.

Il secondo passo della nuova strategia USA è lavorare con gli alleati per garantire che anche loro costruiscano capacità, resilienza e inclusione.

Il governo degli Stati Uniti fa pressione sugli alleati e i partner affinché facciano di più per la creazione di un’economia sicura e sostenibile di fronte alle realtà economiche e geopolitiche. L’obiettivo è una base tecno-industriale forte, resiliente e all’avanguardia su cui gli Stati Uniti e i loro partner affini, sia le economie consolidate che quelle emergenti, possano investire e fare affidamento insieme.

Il terzo punto della strategia dell’amministrazione Biden è andare oltre i tradizionali accordi commerciali per passare a nuovi partenariati economici internazionali innovativi incentrati sulle sfide principali del nostro tempo, che in altre parole vuol dire subordinare la politica della riduzione delle tariffe, la politica del libero scambio alla politica economica internazionale, alla politica di potenza degli Stati Uniti. La globalizzazione è definitivamente affondata.

Anche la politica sul lavoro e sulla tassazione diventano un pezzo della stessa politica di potenza.

Questa strategia nel suo complesso può essere compresa se inquadriamo le fasi successive della concezione economico-finanziaria dominante non in una lotta fra governi e mercati, ma fra diverse fasi della politica di dominio dei governi, e in particolare dell’asse anglo-americano. Gli anni ’70 del secolo scorso sono stati dominati dalla lotta contro la classe operaia: il liberismo e la globalizzazione sono stati le giustificazioni teoriche di questa lotta dei governi: la globalizzazione ha consentito la delocalizzazione delle attività produttive, che ha distrutto le concentrazioni proletarie, mentre il liberismo ha privatizzato o distrutto le reti di solidarietà e le forme di reddito indiretto che sostenevano i settori più deboli del proletariato.

Questa politica nel corso dei decenni ha distrutto il pericolo interno, ma ha creato le basi per la nascita di nuovi pericoli esterni per l’imperialismo angloamericano; è in quest’ottica che si spiega la fobia per la Cina e per la Russia, è in quest’ottica che si spiega la nuova strategia, che sembra dettata direttamente dallo Stato Maggiore Congiunto delle forze armate USA. Sleepy Joe, il presidente USA, è solo un burattino nelle loro mani.

Rimane da capire se la strategia è realizzabile e se porterà benefici alle classi sfruttate, negli Stati Uniti e nel mondo.

L’intervento dello stato per stimolare la crescita economica è finanziato dal debito. La scala su cui si svolge la produzione è talmente grande che il capitale privato da solo non è sufficiente a costituire un fondo iniziale, per l’acquisto delle strutture, dei macchinari, delle materie prime per iniziare la produzione. Per questo è necessario l’intervento del capitale pubblico. Ma crescita economica non significa solo aumento dei prodotti, significa anche aumento della scala della produzione, per cui ad ogni nuovo ciclo è necessario un maggiore intervento del settore pubblico. Quindi non si tratta solo di dare una spinta iniziale e poi il processo di produzione continuerà da solo, rimborsando l’investimento iniziale. Aumentando la scala della produzione, ci sarà bisogno di un intervento crescente dello Stato per alimentare la produzione: è stata questa la contraddizione dell’approccio keynesiano che ha portato al suo tramonto.

D’altra parte, come abbiamo detto sopra, la crescita economica è rappresentata da un grafico ascendente, ma si concretizza in una massa di prodotti crescente, una massa di prodotti, beni e servizi che sono fatti di materie prime e materie di consumo: la crescita economica porta con sé l’aumento dell’estrattivismo e dell’agricoltura internazionale, l’idea che ” la costruzione di un’economia a energia pulita del XXI secolo sia una delle opportunità di crescita più significative del XXI secolo” è un’idea senza senso.

Dobbiamo infine liberarci dall’illusione che la crescita del benessere delle classi sfruttate sia il risultato della crescita economica.

Come dicevamo prima, l’aumento della produzione è legato all’aumento della massa delle strutture, dei macchinari, delle materie prime necessari alla produzione: l’aumento della massa dei beni di investimento può avvenire solo a scapito dei beni di consumo, in primo luogo di quelli destinati alle classi a basso reddito. Ad ogni ciclo produttivo, la base su cui si calcola la percentuale di crescita diventa più grande, per cui se vogliamo mantenere costante il tasso di crescita, la massa dei prodotti destinati al consumo deve diminuire costantemente; se vogliamo un tasso di crescita che cresca in proporzione aritmetica, i prodotti destinati al consumo devono diminuire in proporzione geometrica.

A questo si aggiungono gli effetti dell’aumento del debito necessario a finanziare la produzione: l’aumento del debito porta con se l’aumento del costo degli interessi sul debito pubblico.

Il segretario dell’ONU Guterres ha denunciato al vertice di Parigi sul debito, il comportamento di Fondo Monetario Internazionale e di Banca Mondiale che favoriscono i governi dei paesi più ricchi a danno dei paesi a basso reddito. Guterres ha accusato il dominio finanziario dei governi dell’Occidente, sottolineando che l’Africa spende più per gli interessi sul debito che per la sanità.

Quanto avviene in Africa avviene anche nelle metropoli imperialiste, dove il servizio del debito contratto a favore dei capitalisti e dei militari, assorbe progressivamente le altre voci del bilancio statale.

La via d’uscita non sta nelle promesse di questo o quel governo; il reddito deve essere indipendente dalla crescita capitalista, dall’aumento della produttività e dalla professionalità, dal lavoro svolto o meno.

La lotta contro la produttività e il piano del capitale nelle metropoli imperialiste, come si diceva negli anni ’70, si salda alla lotta contro l’estrattivismo e il colonialismo, per fermare la crisi climatica.

Tiziano Antonelli

Articoli correlati